Di cosa si impazzisce? La pazza gioia

image

Di cosa si può impazzire? Di indifferenza, di desiderio, di violenza, di impotenza…

“La pazza gioia” : il film di Virzi entra nell’esperienza lucida e umana di due pazienti psichiatriche che si incontrano in una comunità terapeutica assistita e agiscono senza progetto una fuga alla ricerca dei loro fantasmi.

Fantasmi che la fuga rivela come reali: uomini violenti, genitori assenti ed egoisti, amici ipocriti o indifferenti.

Ognuna delle due mette in scena i sospesi: Donatella cerca il figlio dato in adozione e interroga una chiaroveggente, Beatrice cerca di nuovo il mondo in cui si può sentire importante, privilegiata, capace di avere tutto ciò che vuole. Donatella porta dentro una mancanza che vuole riempire per rammendare una grossa ferita/colpa, Beatrice vuole esistere per qualcuno e avere un palcoscenico per ognuna delle sue parti: per la signora dell’alta borghesia e per la donna sottomessa che si fa umiliare da uno squallido criminale.
Beatrice usa i suoi mezzi – maniacali e reali – per realizzare il sogno di Donatella.
In questa fuga rocambolesca incontriamo i genitori delle due, gli ex compagni, le loro storie e i buchi che hanno lasciato. Buchi riempiti da Valium, alcol, sigarette, denaro, gioco, illusioni di vario tipo… ognuna delle due guarda i buchi dell’altra e li insegue, li condivide e ascolta profondamente.

Così Beatrice recupera Donatella dall’ospedale psichiatrico giudiziario, e con i suoi mezzi – folli e reali – riesce a riaccenderne la speranza. E poi Donatella recupera Beatrice dall’abbraccio depressivo della vecchia casa materna ed entrambe riescono ad arrivare all’uscio della casa del bambino.

A questo punto il loro legame diventa integrazione. I buchi si tengono insieme come nell’incastro di un puzzle. Le parti scisse e i vuoti formano una temporanea unità nella scena del tramonto.

Donatella avrà il suo incontro che rimette in atto il dramma vissuto, in una forma positiva e vitale, e così potrà uscire di scena dalla vita del figlio, accettando la propria inadeguatezza.

Le due si separano ma si riuniranno di nuovo in comunità. Un luogo dove operatori e pazienti un po’ si somigliano e trovano soluzioni in un quotidiano condiviso e imperfetto.

In una scena Beatrice in lacrime viene avvicinata dalla psicologa che le poggia la testa sulla spalla, e guarda nella stessa direzione. Allo stesso modo il direttore sanitario si appoggia alla psicologa e le bacia il collo, e si forma una sorta di catena dove ognuno si sostiene all’altro e si annullano le differenze. Ogni mancanza si poggia sulla mancanza dell’altro.

imageLa relazione, il legame che unisce, è la cura. Ma il sistema che funziona e alla fine recupera è un sistema in cui ognuno è consapevole della propria responsabilità e agisce per il bene delle pazienti. Non abbiamo visto operatori in burn out, burocrazie invalicabili o insufficienti. Forse il mondo della psichiatria pubblica/privata risulta un po’ idealizzato, guardato con occhio esterno e condito di spirito basagliano ancora possibile.

Una “pazzia” al femminile e una comunità/utero in cui rifugiarsi dalla violenza del mondo. Pacificante, ma ancora al di qua della vita “vera”. Non sappiamo cosa succederà a queste anime fragili quando dovranno di nuovo uscire nel mondo e incontrarne la durezza.

La pazzia “vera” non è gioiosa, ma la pazza gioia qui è uno stato di condivisione, di risonanza armonica dell’essere con l’altro. Questo stato è reso possibile da un contenitore “buono” e da una funzione protettiva rappresentata dalla comunità, “madre” accogliente e trasformatrice (funzione alfa) verso cui tornare e sostare per un tempo indefinito, protetto, terapeutico… simbiotico?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *